#ilteatroèdonna
liberamente tratto dai testi di
Dacia Maraini, Diana Marta de Paco Serrano, Alejandra Pizarnik, Maria Teresa Coraci
con MARIA TERESA CORACI e ELENA PISTILLO
scene, immagini video e costumi Fabrizio Lupo
regia di Enrico Stassi
PRIMA NAZIONALE
Cinque casi clinici, di esistenze mancate o di vita offesa, nell’accezione adorniana del termine (T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa).
Come quella di cinque donne – diverse fra loro, per epoca, riferimenti storico-biografici, genesi letteraria – accomunate da un medesimo destino: l’offesa della incomprensione, del non riconoscimento, della discriminazione di genere, della reclusione, dell’oblio.
Il primo caso è Rosa, personaggio di fantasia, creato dalla drammaturga spagnola Diana Marta de Paco Serrano, tratto dal testo Aspettami in cielo… oppure no! (2015). Rivive, in un suo personale delirio comico grottesco, la tormentata vicenda d’amore con un uomo affetto da un grave disturbo, la cui natura si scoprirà nel corso del racconto e alla fine risulterà fatale a entrambi.
Il secondo caso è la storia di Lucia, danzatrice e scrittrice, figlia di James Joyce e amante di chi allora ne era il segretario, Samuel Beckett, la cui vita fu contrassegnata da un lungo peregrinare in diverse cliniche psichiatriche d’Europa. Maria Teresa Coraci ne rievoca la figura descrivendo il “naufragio” della sua mente.
Compare a un tratto – come in un salto di allucinazione storica, dimensione cara al poeta greco contemporaneo Ghiannis Ritsos – Clitennestra, il terzo caso, nella versione femminista immaginata da Dacia Maraini (I sogni di Clitennestra, 1978). Lo spettacolo ritaglia un momento di quest’opera: la figlia che fa visita alla madre internata e il dialogo impossibile che si dipana tra le due: Elettra, vestale dell’ordine patriarcale costituito, e Clitennestra, sovvertitrice di quell’ordine, che per questo terminerà i suoi giorni in manicomio.
Dall’abisso di questa contraddizione insanabile si passa alla leggerezza amara di Dorina, scritta da Maria Teresa Coraci: Dora Maar, la fotografa e pittrice francese, una delle poche amanti di Picasso a non finire suicida. Quando, dopo dieci anni, venne lasciata da Picasso, Dora cadde in una profonda depressione che la costrinse a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica, dove fu sottoposta a numerosi elettroshock.
Leggerezza e ironia non riescono a salvare Camille, il quinto caso. Camille Claudel, l’allieva e amante del grande Auguste Rodin, scultrice di valore ella stessa, colei che per volere della madre venne internata in manicomio e che – sempre per volere della madre – vi rimase per trent’anni, fino alla morte, anche quando i sanitari erano pronti a firmare le sue dimissioni. Il personaggio di Camille viene restituito dalla scrittura icastica ed epistolare di Maria Teresa Coraci.
Queste figure di donne così diverse fra loro, descritte da una partitura di testo a più mani, sono tenute insieme da un’unica dimensione: un sogno di settanta minuti. È come se la notte, in questo unico sogno, in uno spazio-scena tutto per sé, le accogliesse insieme, fuori da ogni sintassi logico-razionale-temporale, per dar loro parola e riconoscimento. In questo senso, le scene mutevoli e le visioni d’artista di Fabrizio Lupo concorrono a sottolineare e, si direbbe, a dichiarare l’emozione onirica dello spettacolo.
Eppure “Un giorno torneremo a essere” recita il prologo iniziale della poetessa Alejandra Pizarnik (La figlia dell’insonnia, 2015). La stessa a cui non sfugge la difficoltà del dirsi e l’inganno della parola.
Enrico Stassi